CARAIBI
Fort-de-France o la città invisibile

Paola Ghinelli

CARAIBI: Fort-de-France o la città invisibile
Milano • Unicopli • 2006• 10,00 €.

PROFILO DEL LIBRO

Fort-de-France, la capitale della Martinica, non è soltanto una delle mete privilegiate delle crociere nei Caraibi, ma anche un centro urbano complesso e affascinante. Alcuni suoi quartieri malfamati hanno ispirato interi romanzi e proprio le zone d’ombra della città caraibica costituiscono il filo conduttore di questa insolita guida, ispirata ai romanzi urbani di Patrick Chamoiseau e di Raphaël Confiant. Ma qual è il ruolo della città in Martinica? In che cosa la storia, la geografia, la politica di quest’isola caraibica hanno influenzato l’aspetto delle case e delle strade della capitale che risente ancora delle strategie di sopravvivenza degli schiavi nella piantagione? Paola Ghinelli cerca una risposta a queste domande nel corso di un viaggio appassionante, che la porterà a perdersi tra le vie della città reale e i quartieri dell’immaginario.

AUTORE

Paola Ghinelli è traduttrice e viaggiatrice. Dopo aver collaborato al volume Belleville, l’altra Parigi di Daniel Pennac edito in questa stessa collana, si è specializzata in letterature francofone all’Università di Bologna, alla Sorbona a Parigi e all’Università delle Antille-Guyana in Martinica. Collabora a diverse riviste letterarie, tra cui L’Indice, e a due programmi radiofonici. Sito internet dell'autore qui.

INDICE

La Martinica e la città

Fort-de-France nello spazio e nel tempo

Lo spazio, anzi il luogo
Il tempo, o la nascita tardiva di una città

La Savane: spazio di morte, spazio di vita

La morte
La vita

L’ “Incittà”

La Croix Mission
I mercati e il quartiere commerciale

Le periferie

Terres Sainville
Morne Pichevin
Texaco

Fort-de-France o la città invisibile

La memoria
Il nome segreto

boule

Presentazione di Elena Pessini

Con il Diario di un ritorno al paese natale, il lungo poema che lo ha reso famoso ben oltre i confini della piccola isola della Martinica, Aimé Césaire scrive, prima della seconda guerra mondiale e pubblica nell’immediato dopoguerra, uno dei testi fondanti, forse il testo fondante, della letteratura francofona antillana contemporanea. Questo lungo canto che si nutre di una riflessione cristallizzatasi attorno al movimento della Négritude negli anni ‘20-‘30 del secolo scorso è stato spesso letto, celebrato e analizzato. Come tutte le grandi opere non finisce tuttavia mai di offrire nuovi spunti, di aprire nuove prospettive, di porsi come eterno palinsesto da decifrare, al quale bisogna sempre tornare, e il lettore deve arrendersi al fatto che le diverse espressioni letterarie, consacrate in seguito come originali e innovative fossero, in realtà, già in luce in quei versi. Il narratore poeta vi traccia la storia degli schiavi, dei deportati neri e dei loro fratelli africani e intende anche, mi sembra, indicare gli orientamenti della letteratura a venire. Di ritorno nella sua isola, sulla nave che si avvicina alle coste martinicane descrive ciò che vede: si delinea un paesaggio insulare tormentato, caotico, doloroso che non lascia spazio ad alcun tentativo di lettura esotica o compiacente.

Non vi sono accenni alle spiagge bianche, alle palme, all’ozio. Due termini echeggiano in modo ossessivo: “la ville” e “les mornes”, la città e le montagne, quelle montagne tanto particolari da giustificare l’esistenza di una parola ripresa dal creolo che rimanda espressamente alle alture di quelle isole e soltanto a quelle. Il viaggiatore riprende contatto con la sua terra ma ha avuto modo, durante la sua assenza, di liberarsi del potente filtro dell’esotismo che ha fortemente influenzato la visione che i Martinicani stessi hanno avuto della loro isola, e, di conseguenza, anche la rappresentazione letteraria dello spazio insulare.

Paradossalmente il lungo soggiorno europeo, avendo permesso all’autore di prendere le distanze dal luogo dell’infanzia e della prima adolescenza, gli ha conferito uno sguardo vergine e straordinariamente acuto. Non si può non scorgere dietro quello sguardo, in filigrana, l’antico stupore dei primi uomini neri che, forzatamente sbarcarti alle Antille, avrebbero dovuto imparare a vivere su quelle terre infinitamente più fragili dell’imponente continente dal quale provenivano. Come gli antenati schiavi, il protagonista del Diario scopre una terra che dovrà diventare sua, ma questa volta sua veramente, grazie allo sforzo da lui compiuto per scandagliarla, nominarla e descriverla. In quel momento di incontro la sagoma della città di Fort-de-France e l’ombra delle montagne emergono come i due elementi caratterizzanti del paesaggio.

I “mornes” che ospitarono gli schiavi “marrons”, miracolosamente sfuggiti all’inferno della piantagione e la città, costruita, edificata da mani occidentali, per i bisogni economici e commerciali di un mondo lontano e dominatore assoluto. Fort-de-France, simbolicamente rappresentativa di tutte le città martinicane, esce con molte ferite dalla lunga descrizione césairiana:

Alla fine dell’alba, questa città piatta — sparpagliata, che inciampa nel buon senso, inerte, trafelata, sotto il fardello geometrico di croce che si rinnova in eterno, non docile col proprio destino, muta, in ogni caso indispettita, incapace di crescere in armonia con questa terra, impacciata, castrata, vanificata,in contrasto con la fauna e con la flora.1

Nella sua visione duale del paesaggio Césaire indica, profeticamente, la strada da seguire per quelli che, con lui, o dopo di lui scriveranno di queste terre: la letteratura, quella vera, ancora in fieri, non mera imitazione dei versi e delle storie immaginate nella metropoli europea, deve succhiare la propria linfa da uno spazio da riconoscere e da rinominare. Le generazioni di scrittori, figli di Césaire che si avvicendano in seguito, riprendono il testimone cercando ossessivamente il linguaggio letterario più appropriato, la voce migliore, per raccontare il paesaggio martinicano. Prima, cronologicamente, i “mornes”. Come teatro di libertà conquistata, strappata al colono, sono i luoghi, al contempo mitici e reali, prediletti da Édouard Glissant che appartiene alla generazione immediatamente successiva a quella del grande maestro Césaire. Le alture antillane rigogliose, lussureggianti, selvagge, difficili da avvicinare, da domare, ostili all’uomo bianco frenano i tentativi di disboscamento del béké, il colono francese, e diventano covi di rivolta, cullano le ribellioni, proteggendole e alimentandole. Édouard Glissant, nel suo tentativo di ricostruire la verità dello spazio martinicano, guarda con sospetto alla realtà urbana. Quando può, evita di ambientarvi le sue storie. La città è significativamente assente o messa molto in sordina nella cattedrale narrativa costituita dagli otto romanzi che formano ad oggi l’insieme delle storie narrate dallo scrittore antillano. Quando il testo si sofferma sulle agglomerazioni urbane, ne evidenzia con crudezza gli aspetti negativi:

Intanto si addensano le città; ciò che chiamiamo le città, poiché non vi è un vero nome per la cosa innominabile. L’ammasso di lamiera e legno come una cancrena fra i viali di fango; […] La lunga via centrale, abbastanza sgombra, per i tilbury e le vetture leggere, i vestiti con la crinolina e i funerali di prima classe. L’apparenza quindi, la facciata petulante, e, non venti né dieci, ma cinque metri indietro la lebbra brulicante che scende molto naturalmente verso il cimitero.2

Con questa descrizione dalle tinte forti Édouard Glissant non evoca Fort-de-France, la città di cui si occupa Paola Ghinelli nel volume che presentiamo bensì Saint-Pierre, altra concentrazione urbana dell’isola, fiore all’occhiello dell’impero francese nel momento di massimo splendore degli scambi commerciali delle colonie, andata completamente distrutta nel 1902 in seguito all’eruzione vulcanica della Montagne Pelée che seminò morte e distruzione ricoprendo uomini e cose di lava e ceneri. E’ tuttavia poco rilevante che il brano si riferisca all’una o all’altra delle due città. Si tratta comunque della cosa “innominabile”, di un mostruoso aggregato. Saint-Pierre è una piaga del paesaggio. Il narratore guarda con sospetto quel frammento di Occidente innestato nella realtà tropicale, tilbury e crinoline stonano, stridono, mal si addicono al clima e ai colori del luogo. La città, che non può che essere città di mare, porto proiettato verso una realtà altra al cui benessere è completamente dedita, sembra voler voltare le spalle all’isola:

Intanto gli altri fanno costruire le strade. Le strade coloniali, che corrono alla Fabbrica e non si occupano mai di ciò che ristagna ai lati. Che portano alla gendarmeria, con le lunghe scie nere che tagliano la savana. Che serpeggiano fino alle città e ai porti, sbucando sulle banchine malferme dove le navi si riempiono di mercanzie. Quelle strade non fanno in tempo a penetrare nel calore delle terre, tutti possono vedere che corrono verso gli affari più urgenti, dai bordi dei campi alla riva del mare.3

L’eco delle descrizioni entusiaste di Lafcadio Hearn, profondo conoscitore dei Caraibi dove si reca come inviato di un giornale americano alla fine del secolo XIX, temperano l’impressione negativa di malessere che accompagna il lettore di Édouard Glissant quando questi si sofferma a descrivere le città. Nel suo volume, Two years in the French West Indies, Hearn narra della sua permanenza in Martinica negli anni in cui Gauguin stesso vi soggiornò e abbozza i contorni di una città profondamente diversa. Eppure il momento storico è lo stesso, il passaggio dal XIX al XX secolo.

Siamo sbarcati a Saint-Pierre, la più bizzarra, la più divertente ma anche la più graziosa fra tutte le città delle Antille francesi. E’ interamente costruita in pietra, lastricata in pietra, con vie molto strette, tettoie in legno o zinco, tetti a punta in tegole rosse forati di abbaini. La maggior parte delle case sono dipinte in un giallo chiaro che contrasta deliziosamente con il bruciante nastro azzurro del cielo tropicale che le sovrasta. […] Sembra che tutti i colori, tutte le forme, tutte le vie siano stati scelti appositamente per servire agli studi di acquerelli e soddisfare il capriccio di un qualche stravagante artista.4

Qual è allora, viene da chiedersi, la vera Saint-Pierre? Perché lo scrittore inglese rappresenta un luogo armonioso, tranquillo, pacifico, dove pulsa una vita dominata da colori, odori, suoni sorprendenti, in contrasto con il luogo, letteralmente, infernale descritto nel Quarto secolo? Questione di punto di vista e di priorità. Non si tratta quindi di una descrizione bensì di una visione che preferisce concentrarsi sui luoghi più autenticamente antillani, che esistevano prima dell’arrivo dei conquistatori, disdegnati e considerati negativamente dai bianchi desiderosi di sfruttare le terre più docili per piantarvi la canna. Soprattutto i parametri della descrizione non possono essere l’equilibrio, l’armonia che guidano lo sguardo di Lafcadio Hearn e tanto meno il rimando a un’arte di maniera.

Glissant si ferma alla periferia della città, ai margini di un universo che connota già come multiplo, meticcio, complesso. Tuttavia, inesorabilmente, il romanzo martinicano, i racconti martinicani, diventeranno romanzi urbani, saranno ambientati sempre di più nelle città che crescono, che debordano dai loro confini e assumono caratteristiche peculiari, compiendo un’evoluzione avvenuta molto prima nelle letterature dei paesi europei e realizzando in questo lo stesso destino delle altre letterature postcoloniali.

Maria Pia De Angelis, a questo proposito, ci ha ricordato che “Luogo elettivo del postcoloniale ci appare oggi la città, sede di contrasti ma anche di attenuazione dei contrasti, contenitore in cui si articolano i concetti di ibridismo, meticciato, mescolanza, spazio dove vengono negoziate e convivono identità diverse e pluralistiche.”5 Il romanzo diventa prettamente urbano, soprattutto per l’ultima generazione di scrittori, i cui più illustri rappresentanti sono senza dubbio Patrick Chamoiseau e Raphaël Confiant sui quali si sofferma il presente volume. In larga parte debitori e figli di Glissant, nel loro desiderio di concentrarsi sulla realtà creola voltano definitivamente le spalle ad un Africa ormai lontana, non solo geograficamente ma anche storicamente e cronologicamente.

Realizzano così il percorso idealmente immaginato da Césaire, soffermandosi in particolare sull’attuale capitale della Martinica: Fort-de-France. Anche il territorio urbano merita di essere rivisitato. Nell’affascinante percorso offertoci da Paola Ghinelli emergono due costanti che proponiamo come possibili fili conduttori della lettura.

In primo luogo appare chiaramente che la città ha messo radici nelle isole, radici diverse, radici rizomatiche, ma saldamente ancorate al territorio.

Non più appendice o satellite, vive di uno spirito proprio fatto di sincretismo, mescolanze, molteplicità in ogni sua componente: architettonica, umana, culturale, linguistica. In secondo luogo, grazie alla sua capacità di mettere insieme realtà diverse, distanti, impulsi e ispirazioni venuti da molti continenti, uomini apparentemente così differenti, Fort-de-France e la città antillana in generale, si pone come una sorta di anticipazione dei cambiamenti che tutte le città del mondo stanno attualmente vivendo o conosceranno, modificando profondamente la propria identità, diventando villes du deuxième monde, città del secondo mondo.

Le chiama così Chamoiseau in un suo piccolo volume dedicato appunto alle città che verranno, volume che avrebbe senz’altro potuto prendere posto nella collana che oggi ci ospita:

Non era una super-città e neppure una città universale. Era un organismo aperto, impalpabile che giocava col tempo e le distanze, senza vera collocazione storica, sociale, territoriale: era incompiuta, non cominciata, perfetta e in costante squilibrio poiché si nutriva dello spazio relazionale delle paure delle lotte dei desideri e dei sogni. La sua forza stava tutta nel non avere frontiere o portoni, niente facciate o retroguardie, niente piani alti o scantinati, nessun potere centrale o invisibili imperatori: stava tutta nella relazione, nata dalla relazione di tutti gli uomini fra di loro e in divenire in lei.6

Note

  1. Aimé Césaire, Diario del ritorno al paese natale (traduzione di Graziano Benelli), Milano, Jaca Book, 2004, p. 33.
  2. Édouard Glissant, Le quatrième Siècle , Paris, Gallimard, 1964. In traduzione italiana Il quarto secolo , Roma, Edizioni Lavoro, 2003, pp. 223-224.
  3. Ibidem , p. 223.
  4. Lafcadio Hearn, Two years in the French West Indies, (1890, prima pubblicazione). Abbiamo consultato il testo nella traduzione francese Aux vents caraïbes (Paris, Hoebeke, 2004).
  5. Maria Pia De Angelis, Città/Campagna, in Abbecedario postcoloniale I-II, Venti voci per un lessico della postcolonialità (a cura di Silvia Albertazzi e Roberto Vecchi), Macerata, Quodlibet, “Biblioteca di Letterature omeoglotte”, 2004, p. 65.
  6. Patrick Chamoiseau, Livret des villes du deuxième monde, Paris, Momum, Éditions du patrimoine, coll. «La ville entière», 2002, p. 67. (La traduzione è nostra)
boule

Fort-de-France o la città invisibile

La memoria

La città riesce a evolvere rapidamente, a rinnovarsi, ma anche a mantenere una memoria. Quest’ultima costituisce un concetto chiave per l’ultima generazione dei romanzieri martinicani, perché all’epoca della schiavitù era nell’interesse dei proprietari delle habitations negare il tempo e gli eventi degli schiavi. Più tardi, la storia insegnata nelle scuole è sempre stata quella francese, e se i romanzi di Confiant sono sistematicamente ambientati nel passato, è anche per recuperare momenti e storie autenticamente locali. La memoria dunque è legata al luogo, e nella città essa rinasce segretamente e ambiguamente come lo fece nella piantagione permettendo a certe tradizioni africane di giungere sino a quest’isola persa nell’oceano.

Quella della memoria è una delle chiavi di interpretazione del rapporto tra

i due spazi della (…) città creola: il centro storico, che vive delle esigenze nuove del consumo, e la corona di occupazione popolare, ricca della profondità della nostra storia. Fra questi luoghi, il palpito umano che circola. Al centro si distrugge il ricordo, per ispirarsi alle città d’Occidente e rinnovare. Nella corona si sopravvive di memorie. Al centro ci si perde nel moderno del mondo; qui si portano alla luce vecchissime radici, non profonde e rigide ma diffuse, profuse, sparse nei tempi con quella leggerezza conferita dalla parola1.

La narrazione di un tempo legato al luogo e di molteplici storie che contribuiscano a tessere una trama universale sono focali nella ricerca degli scrittori di oggi. Forse le case abbandonate in pieno centro, il recupero, talvolta creativo, degli spazi urbani, la costruzione con materiali effimeri, la persistenza di toponimi antichi hanno stimolato questa ricerca. In ogni caso, tutti questi aspetti possono essere interpretati come una necessaria e vitale alternativa all’omologazione.

Ci si sarà resi conto, leggendo queste pagine, di quanta parte di Fort-de- France sia occulta o introvabile. Le ristrutturazioni sono continue, le località portano nomi che nessuno usa, è impossibile determinare la ricchezza di una casa dalla sua facciata, interi isolati cambiano carattere nel volgere dei brevi tramonti martinicani. Gli edifici fatiscenti possono essere utilizzati e quelli nuovi abbandonati, ci sono strade senza nome, persino il municipio è doppio ed è l’edificio senza valore amministrativo ad avere la facciata più graziosa e l’insegna più evidente. La sensazione che si ha camminando per Fort-de- France non è quella di perdersi (sarebbe impossibile in quelle vie ortogonali) ma quella di perdere la città stessa, di passarle accanto, di non coglierne lo spirito e i misteri. Gli stessi colori brillanti, così intensi rispetto a quelli europei, sembrano quasi uno specchio per le allodole. Le prospettive abbacinanti, i contrasti, la luce, stordiscono al punto da far nascere il sospetto di perdere l’essenziale. Infatti, cercare l’essenziale qui è assurdo. Quantomeno, se lo si cerca si resterà delusi, perché a Fort-de- France non c’è nulla di essenziale che sia anche tangibile. Al di là dei colori sgargianti, niente è esotico. Gli edifici sono recenti, i monumenti, coloniali e il paesaggio comune a questa fascia della superficie terrestre. L’essenziale è inespresso, ridotto al silenzio da secoli di schiavitù, si è ritratto di fronte al miraggio del consumismo e diffratto per sopravvivere a una politica di dominazione. O forse, questo silenzio è un gesto, questa ritrazione un cambiamento, questa diffrazione una moltiplicazione infinita, e l’insieme di queste strategie è fatto per sfuggire a chi ha occhi di colonizzatore. In ogni caso, cambia chi la guarda. Meglio frequentarla abbandonandosi alla sua incommensurabilità con gli schemi mentali occidentali, senza spremerne il succo.

La migliore letteratura martinicana di oggi mette in pratica una resistenza astratta, perché la schiavitù è stata abolita e la dominazione si è fatta discreta. Non a caso gli scrittori teorizzano oggi non una rivoluzione sulle orme di quelle che la storia ci ha tramandato, ma un atteggiamento nuovo, che si adatti alla realtà attuale in modo silenzioso ed efficace. Confiant, apparentemente immerso nel passato, mostra nei suoi romanzi meccanismi sociali e questioni culturali attualissime. Chamoiseau cerca di delineare nelle sue opere le caratteristiche del guerriero assoluto. Si tratta di un concetto molto vicino a quello delle arti marziali, poiché il guerriero non è aggressivo o dominatore, ma attento e ricettivo. Nei due casi, la letteratura martinicana (apparentemente isolata e isolana) trascende il luogo. Anche chi non ha la memoria storica della schiavitù infatti, può far fronte ad altre dominazioni attraverso questi romanzi, può riconoscere ciò che contengono di umano.

L’idea di guerriero ci interessa perché si tratta di una rielaborazione contemporanea delle tecniche di sopravvivenza degli schiavi nelle piantagioni, le stesse che hanno originato nel tempo la cultura creola e anche la città. In questa prospettiva, Fort-de- France è al contempo la summa e il prodotto di quattro secoli di storia martinicana. La città condensa lo strazio della tratta degli schiavi e la vitalità ad essa connessa, dato che, per quanto doloroso questo possa essere, è proprio dall’ignominia della schiavitù che la Martinica è nata ed è divenuta ciò che è attualmente. Migliaia, milioni di persone morirono o furono barbaramente uccise lungo il tragitto che li portava verso le Indie occidentali per essere utilizzate come schiavi. Dei superstiti molti si suicidarono, o uccisero i propri figli ancora in grembo per sottrarli alla schiavitù. Altri però vissero, ed è da loro (e anche da chi li comprava e li torturava) che discende la maggior parte dei martinicani. Molte espressioni culturali caraibiche, tradizionali e non, derivano dalle diverse strategie di sopravvivenza ideate sulle piantagioni. Naturalmente esse sono state infinite, e differivano da un individuo all’altro ma, sommariamente, se ne possono identificare due gruppi: da una parte il marronage, la fuga verso i boschi per tentare di ricreare una società di tipo africano, dall’altra la creazione di uno spazio vitale sulla piantagione. Quest’ultima modalità è stata particolarmente rivalutata nell’ambito letterario contemporaneo, sia perché fino a 20 o 30 anni fa non era stata presa in considerazione, sia perché la pratica del marronage somiglia molto alla rivoluzione tradizionale, di stampo europeo, obsoleta secondo gli ideatori della creolità2. Per finire, i fuggiaschi si sono re-immessi nella società all’epoca dell’abolizione, quando molte tradizioni si erano già formate. Chi metteva in atto una resistenza dall’interno della piantagione è invece stato costretto a ideare forme espressive e vitali segrete e ambigue perché i propri stratagemmi non venissero scoperti. Ad esempio, le favole tradizionali martinicane trasmettono essenzialmente il concetto di furbizia, talvolta a spese degli altri. Oppure, tutti i riti legati alla morte che abbiamo velocemente percorso sono un modo per veicolare modalità africane in un involucro apparentemente europeo (le celebrazioni funebri rientrano infatti nell’ambito della religione cattolica). Ancora, il ladja, la danza-combattimento di cui parla L’omicidio del sabato-gloria, è una modalità di uccisione folgorante e segreta. Più generalmente, tutto ciò che è legato all’ubiquità, all’impassibilità, al silenzio, ha un grande valore in una società nata da una situazione di dominazione in cui chi non si faceva notare aveva salva la vita. Proprio grazie all’immersione in ciò che è più intimamente e segretamente locale, la letteratura martinicana contemporanea moltiplica le proprie potenzialità e si rifrange nel mondo. Traendo la propria linfa da ciò che è infinitamente particolare e circoscritto, essa si connette ad altre letterature e ad altre vite. Queste considerazioni sono molto generali, e non le approfondirò ulteriormente qui. Interessa piuttosto vedere come questi valori e queste logiche si esprimano in ambito urbano e architettonico.

Il nome segreto

Marie-Sophie Laborieux, la prima narratrice del romanzo Texaco, passa un certo periodo nella mangrovia di Texaco non ancora del tutto strappato al fango, presso Babbo Totone, un Mentor. “Un Mentor, questo è un senso della parola, non ha mai sofferto la frusta o la segreta; giunta l’ora della spranga e dei ferri d’improvviso ci si scordava di lui; le invidie cattive di chicchessia non si sfogavano mai contro un Mentor”3. Questa figura di mago potentissimo emerge quindi senza dubbio proprio da quella cultura di resistenza ambigua e silenziosa che prese forma nella piantagione. Naturalmente, nel corso dei secoli, essa si è arricchita di molte altre caratteristiche, ma la sua origine è nei guaritori e negli avvelenatori che operavano nell’ombra delle case padronali dei tempi della schiavitù. Ora, questo Mentor suggerisce a Marie-Sophie di battezzarsi con un nome segreto4. Sebbene la scena si svolga negli anni cinquanta e Babbo Totone rappresenti una specie in via di scomparsa, “l’ultimo Mentor”5, è evidente il legame tra questo metodo per trarre da sé la forza di continuare sul proprio cammino e le pratiche clandestine precedenti all’abolizione. Chamoiseau allude però anche all’interpretazione urbana di questo atteggiamento guerriero. Infatti, sebbene il narratore rispetti sino all’ultima pagina la segretezza del nome della protagonista, quale altro nome avrebbe potuto scegliere Marie-Sophie se non Texaco?

A parte questo, è molto suggestivo poter interpretare in questa prospettiva anche l’incertezza toponomastica che ammanta la città. I nomi dichiarati sono diversi da quelli usati perché Fort-de- France non vuole farsi trovare. Se si vuole catturare e imprigionare in una logica europea questa città, essa si sottrae. Persino i cambiamenti e le ristrutturazioni, che possono avere lati positivi, ma cancellano i luoghi di memoria, vengono in certo senso annullati dal fatto che gli antichi toponimi persistono per decenni dopo la distruzione del luogo. L’ambiguità del nome di località è dunque una forma di resistenza e di opacità. Quelle che di primo acchito possono parere imprecisioni o errori possono essere interpretate come la manifestazione del carattere “guerriero” di Fort-de- France, della sua evoluzione indipendente dai cambiamenti imposti. Infatti, i vecchi toponimi non vengono mantenuti sempre, quasi dietro all’oblio di ognuno ci fossero decisioni precise.

A questo punto, diventa sospetto anche quel tocco di decadenza tropicale che è parte del fascino della capitale martinicana. Meta ormai quasi dimenticata dalle crociere caraibiche, Fort-de-France cura poco i propri musei mentre chiude e apre di frequente negozi e uffici turistici. Sebbene la città ospiti tuttora baracche prive di tutto, esistono anche appartamenti confortevoli delimitati da quattro pezzi di lamiera ondulata. E se questa capitale apparentemente sonnacchiosa volesse solo far passare inosservata la propria presenza vigile? Comunque sia, nelle sue vie ortogonali o tortuose, nelle alture di periferia possedute dai fantasmi del passato, nelle catapecchie e nelle ville creole, nelle ombre che si stagliano nella calura, nelle nuvole spazzate dagli alisei, nei mercati chiassosi e nelle chiese immobili, abita una realtà diffratta, imprendibile, che porta in sé la sua origine e la sua distruzione, che è intrinsecamente e contraddittoriamente guerriera.

Riferimenti bibliografici

Bibliografia delle opere originali degli autori citati tradotte in italiano

Césaire, Aimé, Le armi miracolose , Parma, Guanda, 1962.  Traduzione e introduzione di Anna Vizioli e Franco De Poli . Edizione originale: 1970.

Césaire, Aimé, La tragedia di Re Cristophe, Torino, Einaudi, 1968.  Traduzione di L. Bonino Savarino . Edizione originale: 1963.

Césaire, Aimé, Diario di un ritorno al paese natale, Milano, Jaca book, 1978 e con il titolo Diario del ritorno al paese natale, 2004. Traduzione di Graziano Benelli, introduzione di André Breton. Edizione originale: 1939.

Césaire, Aimé, Io, Laminaria, Roma, Bulzoni, 1995.  Traduzione di Paola Belli, cura di Graziano Benelli . Edizione originale: 1982.

Césaire, Aimé, Discorso sul colonialismo, Roma, Lilith, 1999. Traduzione e cura di N. Ngana Jogo. Edizione originale: 1955.

Césaire, Aimé, Una stagione nel Congo, Lecce, Argo, 2003. Traduzione di Paola Alba, introduzione di Maria R. Turano. Edizione originale: 1966.

Chamoiseau, Patrick, Cronaca delle sette miserie, Milano, Serra e Riva, 1991. Traduzione di Laura Guarino. Edizione originale: 1986.

Chamoiseau, Patrick, Texaco, Torino, Einaudi, 1994. Traduzione di Sergio Atzeni. Riedito nel 2004 per le edizioni Il Maestrale di Nuoro (per le note è stata utilizzata quest’ultima edizione). Edizione originale: 1992.

Chamoiseau, Patrick, Solibo Magnifique, Torino, Einaudi, 1998. Traduzione e cura di Yasmina Mélaouah. Edizione originale: 1988.

Chamoiseau, Patrick, Il vecchio schiavo e il molosso, Nuoro, il Maestrale, 2005. Traduzione e cura di Paola Ghinelli. Edizione originale : 1997.

Condé, Maryse, Io Tituba, strega nera di Salem, Firenze, Giunti, 1992 e 2001. Traduzione di Maria Adelaide Mori. Edizione originale: 1986.

Condé, Maryse, Segù 1. Le muraglie di terra, Roma, Edizioni Lavoro, 1988, 1994 e 1998. Introduzione di Djibril Tamsir Niane, traduzione di Eliana Vicari Fabris. Riedito nel 2003 con il titolo Segù. Volume 1. Edizione originale: 1984.

Condé, Maryse, Segù 2. La terra in briciole, Roma, Edizioni Lavoro, 1994. Introduzione di Nara Araujo e Anna Maria Gentili, traduzione di Eliana Vicari Fabris. Edizione originale: 1985.

Condé, Maryse, Le migrazioni del cuore, Milano, Rizzoli, 1996. Traduzione di Dianella Selvatico Estense. Edizione originale: 1995.

Condé, Maryse, La traversata della mangrovia, Roma, Edizioni Lavoro, 2002. Traduzione e introduzione di Eliana Vicari Fabris, postfazione di Marie-José Hoyet. Edizione originale: 1989

Condé, Maryse, La vita perfida, Roma, Edizioni e/o, 2004. Traduzione e cura di Guia Risari. Edizione originale: 1987.

Confiant, Raphaël, La profezia delle notti , Milano, Zanzibar, 1994. Traduzione di Anna Devoto. Edizione originale: 1993.

Confiant, Raphaël, L’omicidio del sabato gloria, Torino, Instar Libri, 2003. Traduzione di Yasmina Melaouah. Edizione originale: 1997.

Confiant, Raphaël; Bernab é, Jean; Chamoiseau, Patrick; Elogio della creolità - Éloge de la créolité, Como-Pavia, Ibis, 1999. Edizione bilingue, traduzione e cura di Daniela Marin e Eleonora Salvadori. Edizione originale: 1989.

Fanon, Franz, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1962. Traduzione di Carlo Cignetti, cura di Liliana Ellena, prefazione di Jean-Paul Sartre. Riedito più volte fino al 1979, e nel 2000 per le Edizioni di Comunità, Torino. Edizione originale: 1961.

Fanon, Franz, Il negro e l’altro, Milano, Il Saggiatore. Traduzione di Mariagloria Sears, introduzione di Francis Jeanson. Riedito col titolo Pelle nera maschere bianche, Milano, Tropea, 1996. Edizione originale: 1952.

Glissant, Édouard, Poetica del diverso, Roma, Meltemi, 1998 e 2004. Traduzione di Francesca Neri. Edizione originale: 1996.

Glissant, Édouard, Il quarto secolo, Roma, Edizioni Lavoro, 2003. Traduzione e cura di Elena Pessini. Edizione originale: 1964.

Glissant, Édouard, Poetica della relazione, Macerata, Quodlibet, 2005 (In uscita). Edizione originale: 1990.

Qualche suggerimento per saperne di più

Albertazzi, Silvia; Vecchi, Roberto (cur.); Abbecedario postcoloniale, Macerata, Quodlibet, 2001.

Albertazzi, Silvia; Vecchi, Roberto (cur.); Abbecedario postcoloniale II, Macerata, Quodlibet, 2002.

Barroso, Miguel Angel; Reyes-Ortiz, Igor, Cronache dai Caraibi. Percorso inedito attraverso le Antille, Milano, Feltrinelli, 1997.

Cagliero, Roberto; Ronzon, Francesco (cur.); Spettri di Haiti. Dal colonialismo francese all'imperialismo americano, Verona, Ombre Corte Edizioni, 2002.

De Angelis, Maria Pia; Fiallega, Cristina ; Fratta, Carla, I Caraibi: la cultura contemporanea, Roma, Carocci, 2003.

Ghinelli, Paola, “Il tempo diffratto: Biblique des derniers gestes di Patrick Chamoiseau come espressione di problemi storiografici”, in Albertazzi, Silvia; Vecchi, Roberto; Maj, Barnaba (cur.), Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte, Macerata, Quodlibet, 2004, pp. 269-286.

Ghinelli, Paola, “Entretien avec Raphaël Confiant”, Il Tolomeo, n° 8, anno 2004, pp. 9-12.

Ghinelli, Paola, “Martinica d’antan”, L'Indice, anno XXI, n°6, giugno 2004, p. 17.

Ghinelli, Paola, “La pietra e la corsa”, postfazione a Il vecchio schiavo e il molosso, Nuoro, il Maestrale, 2005, pp.143-147.

Ghinelli, Paola, “Caos/mondo. Intervista a Patrick Chamoiseau”, L'Indice, anno XXII, n°5, maggio 2005, p. 16.

Gnisci, Armando, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Roma, Meltemi, 2003.

Oppici, Patrizia (cur.), Stereotipi culturali a confronto nella letteratura caraibica, Bologna, Clueb, 2003.

Pessini, Alba (cur.), Palazzo Sanvitale n°12: Voci dai Caraibi. Gli scrittori francofoni d’oltremare, Parma, Monte Università Parma Editore, 2004.

Altre opere citate

Breton, André, Martinique, charmeuse de serpents, Paris, Le Sagittaire, 1948.

Chamoiseau, Patrick, Guyane : Traces-mémoires du bagne, (avec des photographies de Rodolphe Hammadi), Paris, CNMHS, (Caisse Nationale des Monuments Historiques et des Sites), 1994.

Flaubert, Gustave, Madame Bovary, Milano, Garzanti, 1965, versione di Oreste del Buono. Edizione originale: 1857.

Note

  1. Texaco, p. 174.
     
  2. Ne Il vecchio schiavo e il molosso, Patrick Chamoiseau ha cercato di rivisitare l’immagine tradizionale del marron, immaginando che questo diventi guerriero nel corso della sua fuga.
     
  3. Texaco, p. 75.
     
  4. Texaco, p. 391.
     
  5. Texaco, p. 378.
boule
  • Archipels littéraires. Entretiens avec Chamoiseau, Condé, Confiant, Brival, Maximin, Laferrière, Pineau, Dalembert, Agnant.